Julian Assange può essere estradato negli Stati Uniti. Il fondatore di WikiLeaks ha perso la sua battaglia legale contro gli Stati Uniti per la sua estradizione in seguito alla decisione odierna della giustizia britannica di accettare le argomentazioni Usa in favore di un suo trasferimento oltreoceano. Si tratta di una sconfitta pesantissima per Assange - che ricorrerà comunque ancora in appello - e di un sentenza dai significati particolarmente oscuri per il giornalismo e le sue libertà.

Le conseguenze della sentenza

La sentenza odierna va infatti a legittimare ancora una volta la linea dell’accusa: quanto pubblicato da WikiLeaks tra il 2010 e il 2011 con la divulgazione dei documenti sulle guerre in Afghanistan, Iraq e con il Cablegate, non è giornalismo nell’interesse pubblico, ma spionaggio e hacking: è questa infatti, la sostanza dei 17 capi di accusa che Assange si vede imputare negli Stati Uniti. Assange potrà essere estradato negli Usa per affrontare un processo e, qualora fosse condannato, potrebbe scontare una pena fino a 175 anni di detenzione. Da anni tutte le più importati organizzazioni che si occupano di diritti umani e libertà di stampa denunciano, inascoltate, la pericolosità del caso Assange le possibili ricadute profondissime sui diritti dell’imputato e su casi simili futuri, oltre che per il giornalismo nel complesso.

Un precedente

Non esiste, nelle democrazie, infatti, un caso simile più estremo di quello di Assange: un editore di fatto privato delle sue libertà da oltre un decennio: Assange, infatti, è stato tenuto prima in condizione di “detenzione arbitraria” per sette anni in una ambasciata, per essere poi incarcerato in isolamento, nonostante i richiami delle Nazioni Unite, e si trova ora vicino a essere processato e potenzialmente incarcerato per le pubblicazioni della sua organizzazione. E per ragioni che pongono una minaccia esistenziale alle libertà dell’informazione. Ogni elemento di questo caso rappresenta un precedente preoccupante, destinato a gettare un’ombra scurissima sul futuro dell’informazione.

Il ruolo della Casa Bianca

L’inchiesta contro Assange e WikiLeaks è passata per le mani di tre diverse presidenze statunitensi, diventando progressivamente sempre più draconiana. È iniziata negli anni di Obama ed è stata portata avanti in segreto fino al momento dell’effettivo arresto di Assange, avvenuto nel 2019 a Londra, quando alla Casa Bianca sedeva Trump, ed è proseguita fino ad oggi, con Biden. Con Obama, gli USA non avevano mai portato avanti l’indagine fino in fondo, proprio per i timori delle conseguenze che la formulazione ufficiale di accuse contro un giornalista avrebbe potuto causare. Trump, invece, ha accelerato in quella direzione, seguito dall’Amministrazione Biden, decisa a sfruttare ogni canale disponibile, nonostante la pressione della società civile e della stampa internazionale.

Nessun cambio di marcia è avvenuto nemmeno in seguito alla pubblicazione dell’inchiesta di Yahoo News! che aveva rivelato l’esistenza di un piano statunitense per un eventuale rapimento o assassinio di Assange nell’ambasciata dell’Ecuador di Londra. Nemmeno questo è servito a persuadere la giustizia britannica che, al contrario, si è detta soddisfatta delle “rassicurazioni” ricevute dagli Stati Uniti in merito alle eventuali condizioni detentive di Assange.

Le condizioni di Assange

In gennaio la giustizia britannica aveva bloccato l’estradizione di Assange su basi puramente mediche: la salute mentale di Assange, ad alto rischio suicidio, venne allora giudicata troppo compromessa per una eventuale incarcerazione negli USA in un carcere di massima sicurezza. Le udienze di appello, svoltesi a Londra in agosto e ottobre, hanno interessato puramente questi punti, con le autorità USA decise a ribaltare il giudizio di primo grado, puntando in particolare a smontare le perizie psichiatriche che lo avevano ispirato e fornendo “rassicurazioni” sulle eventuali condizioni detentive di Assange. Riassicurazione che non hanno convinto nessuno, tranne la giustizia britannica.

I due anni e mezzo trascorsi dall’arresto nell’ambasciata a oggi, sono stati trascorsi da Assange nel carcere di Belmarsh, a 20km a sud est di Londra. I legali di Assange e la sua compagna Stella Moris hanno denunciato più volte il precipitare delle condizioni di salute mentale e fisica di Assange. In attesa dei prossimi passi di questa infinita questione legale, Assange resterà ancora in carcere ed esistono preoccupazioni concrete per la sua vita. Si tratta, di fatto, di una persecuzione destinata a proseguire.

Segnali per il futuro

La decisione odierna è l’ultimo capitolo in ordine di tempo di una vicenda che prosegue da 11 anni e che è un termometro palese di quelli che sono gli attacchi alla libertà del giornalismo lanciati anche nelle democrazie e persino nell’anno in cui sono proprio due giornalisti a ricevere il Premio Nobel per la pace. Il messaggio, avvalorato da tutti i governi coinvolti nel caso Assange, è chiaro: svelare, tramite pubblicazione e tramite il whistleblowing, gli abusi delle più alte sfere del potere non è giornalismo, è spionaggio. Una equazione che stride con i principi democratici e con il senso stesso di giustizia. Una giustizia che dovrebbe valere per Assange e per chiunque decida di servire l’interesse pubblico.

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