Le ambizioni imperiali di Erdoğan, con il placet dell’Europa

Dal soffocamento delle opposizioni interne al controllo delle rotte dei migranti, dalla guerra in Siria alla propaganda islamista in Europa: il presidente turco non nasconde le sue mire neoimperiali. Con il sostegno di fatto dell’Europa. Intervista a Sara Montinaro, attivista politica e dei diritti umani, ex procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo.

Cinzia Sciuto

È di pochi giorni fa la notizia dell’uccisione di Deniz Poyraz, dipendente del partito filo-curdo Hdp, uccisa questa in un attacco mirato alla sede del partito a Smirne in Turchia da Onur Gencer, affiliato delle forze nazionaliste dei Lupi grigi. L’Hdp ha accusato il governo di aver fomentato questo clima di odio nei confronti dell’Hdp, cosa c’è di vero in questa accusa?
Questo assassinio è da inserire all’interno di una cornice più ampia. Innanzi tutto è doveroso specificare che sono diversi anni oramai che la Turchia ha intrapreso un percorso che, a suon di leggi e decreti, ha trasformato in modo veloce e radicale la società turca: dalla reintroduzione del matrimonio riparatore in caso di stupro varata nel 2016, all’utilizzo del velo nelle amministrazioni pubbliche (prima era vietato), al ritiro dalla Convenzione di Istanbul (e questi sono solo alcuni esempi eclatanti) la Turchia di Erdoğan è diventata de facto un regime che opprime le opposizioni, le censura, le perseguita e strumentalizza la religione, introducendo leggi e valori che si avvicinano sempre più ai principi della sharia (legge islamica). Naturalmente questo specifico omicidio non può essere direttamente ricondotto a Erdoğan ma non c’è alcun dubbio che l’Hdp sia stato particolarmente criminalizzato in Turchia da alcuni anni a questa parte. L’Hdp, il Partito Democratico dei Popoli, è un partito che unisce forze politiche curde e turche di sinistra. Alle ultime elezioni del 2015 è arrivato a superare la soglia di sbarramento del 10%, entrando in parlamento con una squadra di 81 parlamentari. Era la prima volta che in Turchia un partito filo curdo arrivasse così in alto. Inizialmente era uno dei soggetti protagonisti dei colloqui sul processo di pace col PKK (Partito dei Lavoratori Kurdi) che si era aperto sulla questione curda. Ma dopo le prime elezioni di giugno e la “sconfitta elettorale” (l’AKP –Partito Giustizia e Libertà-  perse la maggioranza assoluta, necessaria per poter introdurre una serie di riforme, motivo per cui l’AKP si è poi coalizzato con il Partito dei Lupi Grigi – MHP), Erdoğan ha deciso di ritirarsi dal processo di pace e di indire nuove elezioni, dando luogo a una forte criminalizzazione nei confronti di questo partito. Al momento la maggior parte dei parlamentari ed esponenti dell’Hdp si trova in prigione, incluso il leader Selahattin Demirtaş, tutti accusati a vario titolo di terrorismo, con processi assolutamente arbitrari, privi di prove, su cui si è espressa anche il Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, chiedendo il rilascio di Demirtaş. A tal proposito, è doveroso fare un cenno al così detto “Processo di Kobane”, attualmente nelle aule di tribunale, con il quale i parlamentari dell’Hdp sono incriminati, assieme a giornalisti e avvocati, di aver supportato tramite dichiarazioni di vicinanza e solidarietà il movimento che combatteva contro lo Stato Islamico in territorio siriano nel 2014. Tutto questo fa parte di una strategia generale di Erdoğan volta a silenziare tutte le opposizioni politiche, come per esempio quella emersa dal movimento di Gezi-Park.

Mentre sul fronte interno Erdoğan cerca di silenziare le opposizioni, sul fronte esterno acquista sempre maggiore potere nell’area mediorientale e mediterranea…
Erdoğan ha una relazione assolutamente strumentale con l’Unione Europea. Ora punta ad affermare la Turchia come soggetto politico principale all’interno dell’area MENA, ossia dal Medioriente al Nord Africa, cercando di ottenere quanti più privilegi possibili rispetto agli accordi commerciali con l’Unione europea. Da non sottovalutare poi il fatto che la Turchia è il secondo esercito della Nato e dunque un alleato imprescindibile per gli Stati Uniti, in particolare in questa fase di nuova tensione con la Russia e di riassestamento degli equilibri geopolitici della regione. Proprio in queste ore, la Turchia sta portando avanti una nuova offensiva nel Nord dell’Iraq, nelle terre del Kurdistan Iracheno per l’appunto, aggiungendo un nuovo tassello al suo disegno volto a conquistare i territori dell’impero ottomano. Diverse delegazioni internazionali accorse in quei luoghi per denunciare tali avvenimenti sono state fermate o è stato impedito loro di circolare nel territorio proprio per evitare che ci fossero fughe di informazioni. Una situazione davvero molto tesa, di cui nessuno tra l’altro parla. Ma stiamo assistendo di fatto a una guerra e a un allargamento dei confini da parte della Turchia, la quale dimostra in modo sempre più chiaro e palese le sue aspirazioni imperiali.

Uno dei principali strumenti geopolitici in mano a Erdoğan è il controllo delle frontiere verso l’Europa. Possiamo dire che con gli accordi sulle migrazioni del 2015, recentemente rinnovati, è stata l’Ue a porre le condizioni per il rafforzamento del regime di Erdoğan?
Osservando gli avvenimenti degli ultimi anni emerge una strategia ben pianificata: Recep Tayyip Erdoğan, “agendo” i confini, è stato capace di delineare nuove traiettorie migratorie, ribaltare i rapporti di forza, esasperare la crisi umanitaria (prima lungo le coste greche e la rotta balcanica, poi lungo il confine turco-siriano), e imporre nuove politiche agli Stati europei, oggi tutti su una posizione difensiva. L’operazione di esternalizzazione delle frontiere promossa dalla “Fortezza Europa” si è rivelata inefficace (se si pensa alla gestione dei rifugiati) e controproducente (se si pensa alla retorica nazionalista e anti-migranti) determinando un progressivo e inesorabile sgretolamento di quei princìpi e diritti fondamentali di dignità, umanità e accoglienza su cui l’Europa ha costruito le proprie fondamenta.  Tra l’altro in un contesto in cui sono diversi i racconti di pullman pieni di profughi che partono dal Sud della Turchia alla volta di Izmir, con evidentemente il via libera da parte di Erdoğan per attraversare il confine greco. Il presidente turco poi ha buon gioco a raccontare un’Europa che lascia affondare i barconi e una Turchia che va a salvare i migranti.

Ci sarebbe tanto da dire su questo argomento, ma non c’è dubbio che dopo l’accordo sui migranti firmato nel 2015, Erdoğan ha trovato il modo strumentalizzare i rifugiati: sa da un lato li utilizza per minacciare e fare pressione sugli Stati europei, dall’altro diventano l’ingrediente di un operazione di ingegneria demografica delle provincie nel nord della Siria recentemente conquistate (Afrin e Serekaniye), dove si espelle la comunità autoctona curda mentre trovano insediamento i popoli arabi, imponendo un’assimilazione forzata a chi è scappato durante la guerra e non sa dove andare.

In questo contesto l’Unione Europea ha deciso di chiudere gli occhi sulle continue violazioni dei diritti fondamentali e ha finanziato nuovamente il trattato relativo alla gestione dei migranti. Non solo, sta pensando di replicare questo esperimento di esternalizzazione delle frontiere anche su altri fronti, quello libico in primis. Io credo che ci sia un pericolo molto importante e sottovalutato: l’entrata a gamba tesa di Erdoğan in Libia. È risaputo infatti che da diversi anni jihadisti o comunque militanti filo-Erdoğan partono dal Nord della Siria o dal Sud della Turchia per recarsi in Libia. Sono ormai svariati i collegamenti aerei su quella rotta. E naturalmente il controllo sulla Libia gli consentirebbe di fatto di controllare, oltre alla rotta balcanica delle migrazioni, anche quella mediterranea. La Libia è la porta di accesso all’Europa dall’Africa e questo è un elemento che non si può sottovalutare.

Erdoğan non ignora anche l’importanza delle ideologie. Oltre alla svolta islamista interna che conosciamo, fa una importante opera di proselitismo ideologico all’estero.
Verissimo. Pensiamo che il Dyanet, il Ministero degli Affari religiosi turco, negli ultimi dieci anni ha ricevuto il 110 per cento di finanziamenti in più, diventando di fatto il ministero degli Esteri turco. Ha aperto moschee e scuole islamiche sia in Europa (soprattutto in Francia, Germania e nei Balcani) sia in Africa. È la stessa strategia della cosiddetta scuola Gülen, l’imam in esilio a Filadelfia accusato di essere dietro il tentato colpo di Stato del 2015-2016 in Turchia. Ecco Gülen per anni aveva finanziato scuole e università, di fatto “costruendo” la futura classe dirigente turca: magistrati, avvocati, professori universitari, funzionari pubblici… coloro che sono stati vittime della stagione di purghe e licenziamenti avviata nel 2016; parliamo nello specifico di 152.000 licenziamenti di massa e oltre 160.000 persone arrestate.

Ecco, Erdoğan sta adottando la stessa strategia, rivolgendosi a quelle fasce di popolazione economicamente bisognose all’interno di contesti in cui gli arabi e i turchi vengono marginalizzati, come spesso accade in Europa, e usando la religione e gli strumenti di “welfare” che la rete di moschee e scuole coraniche gli mette a disposizione per accrescere il proprio consenso a livello internazionale. Stiamo assistendo alla nascita di un nuovo Sultano che alimenta le proprie mire imperiali ed aspira al sogno neo-ottomano. E l’Europa glielo fa fare.

 

(Foto credit EPA/YVES HERMAN / POOL)



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