Putin, la guerra in Ucraina e il ricorso alla storia

Lo sfoggio retorico di Putin si spiega con il fatto che si crede ancora che la Storia “dia torto o ragione”. E che si combatta meglio con le spalle coperte dai propri antenati.

Francesco Filippi

L’altra sera in tv, prima di riconoscere l’indipendenza delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, Vladimir Putin ha sentito la necessità di una lunga digressione sulla storia/non storia dell’Ucraina. Mentre gli storici esperti del periodo e dell’area dibattono sulla tenuta della lettura apparecchiata a reti unificate dal presidente russo, dividendosi come spesso capita in fazioni e tifoserie più che in scuole e approcci di analisi, la questione balzata agli occhi è stata proprio il lungo e articolato “quadro storico” sotteso all’operazione.

Perché un personaggio politico che non pare particolarmente abituato a giustificare il proprio operato si è sperticato in un’analisi dello spazio imperiale russo/sovietico per motivare i carri armati che stavano entrando nel territorio di un altro Paese? La tirata su Lenin “inventore” dell’Ucraina con ogni probabilità non ha spostato di un millimetro il consenso o il dissenso internazionale sull’avvenimento. Chi era contro lo è rimasto, chi era a favore ha annuito.

Il motivo di tale sfoggio retorico forse sta nel fatto che, in fondo, si crede ancora che la Storia, maiuscola, “dia torto o ragione”, parafrasando Francesco De Gregori. In parole povere, si combatte meglio con le spalle coperte dal buon diritto dei propri antenati.

In un’epoca di eterno presente da schermo piatto sembra impossibile ma c’è ancora necessità di avere una proiezione del proprio operato in una dimensione storica, per il passato e, soprattutto, per il futuro.

Arte antica forse quanto la storia stessa quella di tirare per la giacchetta il passato nelle questioni contemporanee, con una tendenza al determinismo storico che serve sicuramente a scaricare le coscienze. In principio era Dio lo scudo: averlo con sé era necessario per sostenere l’urto del nemico e anche il dubbio dell’alleato. Più recentemente, con la nascita delle opinioni pubbliche e la loro progressiva laicizzazione la necessità di trovare giustificazioni universali e solide si fa più impellente e anche la neonata scienza storica viene scomodata per armare uomini e scaldare coscienze.

Il 3 ottobre 1914 novantatré intellettuali tedeschi firmarono “l’appello al mondo della Cultura” (Aufruf an die Kulturwelt) in cui si provava a smentire la propaganda dell’Intesa che additava la Germania come unica responsabile della Grande Guerra appena scoppiata e, tra le altre cose, si affermava l’orgogliosa eredità storica della nazione tedesca, la sua storia. Di nemico “storico” parlò l’Italia che entrò in guerra il 24 maggio 1915, di storiche rivendicazioni la propaganda fascista nel Corno d’Africa e di missione storica gli Stati Uniti in una buona parte delle loro puntate extraconfine.

La Storia sembra un manto piuttosto resistente dietro cui nascondere più ovvi e presenti, ma sottaciuti, interessi.

Questa banale constatazione dovrebbe al contempo investire gli storici di una sorta di autorità universale derivante dal potere di lettura del passato e dare loro una posizione preminente nella costruzione dello spazio pubblico e anche politico.

Se la storia può giustificare e anche far vincere una guerra, allora ai dipartimenti di studi storici spetterebbero finanziamenti analoghi a quelli dei ministeri della Difesa. Come sappiamo non è così, e per un motivo molto semplice: non vi è alcuna utile adesione tra il messaggio storico e la sua verificabilità attraverso le fonti. In pratica, non importa che quel che usi sia “Storia”, basta che lo sembri. Quindi l’utilità della storia di Lenin che si inventa l’Ucraina finisce nell’esatto momento in cui i T-90 russi varcano la frontiera.

Questo ha fatto nascere il mito, vagamente fatalista, della storia “scritta dai vincitori”, vale a dire di un racconto del tempo schiavo di chi lo può manovrare. Questo, fortunatamente, non è vero. La storia, intesa come l’insieme dei fatti che avvengono nel tempo, è “scritta” da chiunque transiti nel tempo, da chiunque sia vissuto. La storia la scrivono tutti. E anche quando le tracce vengono deliberatamente cancellate esse comunque raccontano, col vuoto della  loro assenza, una propria storia. Quello che fa davvero la differenza, nel racconto storico come in tutti i racconti, è in realtà chi “ascolta”. Sono gli spettatori del processo storico ad analizzarlo e assumerlo o meno come proprio, a renderlo “utile” per la costruzione del presente. Ne deriva che l’unico modo per salvare noi e la storia stessa dal refrain manipolante della “storia dei vincitori” sia applicarsi all’ascolto, e all’ascolto critico: un ascolto che non può dipendere dalla forza mediatica del messaggio ma deve affidarsi alla sua correttezza rispetto alle fonti e alle interpretazioni. In modo da poter costruire su una visione del passato utile e storicamente basata le fondamenta per un presente e un futuro più aderenti alle necessità, più che alle velleità, di chi vive nel tempo. Conoscere il passato e maneggiare i metodi per interpretarlo meglio sono armi che costano meno di quanto si pensi e che, diffuse capillarmente tra gli esseri umani, possono risultare molto più efficaci per fermare i conflitti delle sanzioni economiche. Come spesso accade, conoscere il passato è un ottimo modo per avere un futuro.

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