La laicità è a rischio di sopravvivenza?

Destra e sinistra, per ragioni diverse, in Italia come altrove, sembrano aver del tutto abbandonato il principio di laicità. Le prospettive non sono rosee: nella migliore delle ipotesi esso rischia di andare incontro a una profonda trasformazione di significato che lo renderà irrilevante; nella peggiore, difficilmente potremmo anche solo continuare a discettarne.

Strumento indispensabile per gestire al meglio i rapporti tra Stati e religioni, nonché le conseguenti ricadute sui cittadini, la laicità non può restare indifferente ai venti di cambiamento. Oggi viene però il sospetto che debba ritenersi fortunata, se tali venti non hanno soffiato impetuosamente: in fondo, le religioni evolvono poco, le persone non sono granché propense a mutare opinione, e anche la politica (perlomeno in democrazia) si è spesso dimostrata refrattaria alle svolte improvvise. In passato: ora non più. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un susseguirsi di trasformazioni tanto fulminee quanto inimmaginabili nell’epoca della guerra fredda, in cui ogni scadenza elettorale riproponeva gli stessi partiti, e raramente gli spostamenti andavano oltre lo zerovirgola. Da queste trasformazioni la laicità rischia di uscirne con le ossa rotte. Ammesso che ne esca viva.

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Il processo di mutamento della destra sembra essersi già concluso, e con un esito decisamente preoccupante. Soltanto 13 anni fa un presidente gollista come Sarkozy e un papa tradizionalista come Benedetto XVI lanciavano insieme una «nuova laicità», la «laicità positiva». Anche se non era altro che un clericalismo 2.0 camuffato sotto una parola ben più presentabile, quel momento sembra già dimenticato. Quasi ovunque la destra si è estremizzata. Gli eventi del 6 gennaio a Capitol Hill ne rappresentano l’evento più emblematico, proprio perché costituiscono una novità senza precedenti. Perlomeno negli Usa: perché l’assalto di Forza Nuova alla sede Cgil gli somiglia decisamente parecchio, ma discende geneticamente da un passato fascista.

È una destra caratterizzata ovunque da pulsioni e passioni totalitarie. Forse, in questi giorni, non intende sopprimere la democrazia. Ma anestetizzarla sì, come è facilmente osservabile in Ungheria e in Polonia. È una destra che esibisce disinvoltamente concezioni retrograde, e non ha quindi nemmeno più bisogno di occultare le proprie intenzioni dietro formule astruse come la «laicità positiva». Ha costruito un radicamento fortissimo nel cristianesimo più reazionario, negli Usa come in Italia. Un’alleanza sbandierata senza alcuna remora e non soltanto in ambito culturale: il suo impegno istituzionale per frenare gli avanzamenti civili è incessante. Dove ha raggiunto il potere, ha regolarmente introdotto normative che mettono in discussione diritti che abbiamo considerato troppo presto come acquisiti, dall’aborto a quelli riguardanti le persone lgbt+.

Come la destra, anche la sinistra privilegia ormai le comunità religiose (tante anziché una sola, per quanto rimanga diffuso l’incantamento per il pauperista Bergoglio). Altrettanto allarmante, però, è dover constatare come la sinistra cominci a somigliare alla destra anche in alcuni atteggiamenti aggressivi, con l’unica, fondamentale differenza che sovente i bersagli sono anch’essi progressisti. È un atteggiamento di derivazione anglosassone, come attestano i termini usati per descriverne i diversi aspetti: woke, politically correct, identity politics, critical race theory, cancel culture, senza dimenticare l’intersezionalità e il decolonialismo. Sono parole e concetti che in alcuni casi potevano anche risultare di qualche utilità, ma che nell’ultimo anno hanno maturato, forse definitivamente, un’accezione negativa.

E sono parole rimaste appiccicate alla sinistra. Un esito inevitabile, quando si dà la sensazione di pensare che tutti i bianchi sono inevi…

Un giovane scrittore fra la Columbia University e Parigi

La testimonianza di uno dei protagonisti della letteratura mondiale che ha vissuto il movimento come studente alla Columbia University. Dopo un breve periodo a Parigi prima del Maggio francese, decisivo nella sua formazione di giovane scrittore,
Paul Auster partecipa all’occupazione dell’università americana, vivendo in prima persona la protesta studentesca. Dall’assassinio
di Martin Luther King agli echi della Primavera di Praga, passando per i tumulti di Chicago, si interroga sulle speranze,
le lotte e gli errori della sinistra americana. Testo originariamente pubblicato sul volume MicroMega 1-2/2018 “Sessantotto!”, che qui condividiamo in omaggio al grande scrittore scomparso il 30 aprile 2024.

Liberazione del lavoro o dal lavoro?

Il lavoro, nella società capitalista, serve solo secondariamente, anzi accidentalmente, a soddisfare veri bisogni umani. La sua ragion d’essere è la realizzazione del solo e unico scopo della produzione capitalista: trasformare cento euro in centodieci euro e così via. Bisognerebbe quindi abolire molte delle attività che si svolgono oggi, e reinventare le altre. Il che si tradurrebbe anche in molto più tempo a disposizione. Rifiutare il lavoro non significa però non fare niente, bensì valutare – individualmente e collettivamente – quali sforzi si vogliono intraprendere, in vista di quali risultati.

Lavoro digitale e sindacalismo: unire le forze quando si lavora da soli

La disgregazione dei rapporti sociali un tempo intessuti sul luogo di lavoro dovuta alla digitalizzazione e all’avvento di Internet ha avuto una ricaduta anche in termini di diritti e tutele. Lavorando da casa o comunque da remoto, spesso da soli, non è certo facile sentirsi parte di una categoria che condivide interessi e rivendicazioni. Ma, per quanto ci si possa sentire atomi isolati e dispersi, spesso abbandonati da uno Stato che non riesce a stare al passo con le rapide trasformazioni del mondo del lavoro attuale, si ha comunque modo di associarsi e farsi valere. A spiegare come sono Giulia Guida e Lia Bruna della CGIL e Mattia Cavani e Giovanni Campanella di Acta, l’associazione dei freelance.