analisi

Il contact tracing oltre la privacy. Il tema delle prove di efficacia e della volontà di cercarle

di Federico Cabitza, Professore di Sistemi Informativi e Interazione Uomo-Macchina - Università degli Studi di Milano-Bicocca |

A mio parere è eccessiva la fiducia che viene riposta sull'assioma che basti raggiungere un tasso di adozione adeguato (qualunque esso sia) per garantire efficacia.

Anche se il tema centrale del dibattito sulle app per il contact-tracing, e in particolare su quella che viene proposta per la popolazione Italiana – Immuni, è la privacy, insieme a quello ad esso connesso (ma più tecnico) delle architetture di gestione dei dati (decentralizzate vs centralizzate) e dei protocolli tecnologici da impiegare (bluetooth o GPS), io vorrei invece tornare brevemente sul tema della efficacia di tali strumenti applicativi.

“Il meme del 60%”

Dico “tornare” perché già in un precedente breve articolo apparso su Key4biz, il collega Andrea Rossetti rifletteva sul “meme del 60%”, un concetto che, da quando è uscito da un Laboratorio della Nuffield Department of Medicine della Oxford University, si è diffuso senza trovare troppa resistenza nella popolazione suscettibile alle semplificazioni pseudo-matematiche: e cioè la nozione che, per essere davvero efficace, una app di contact tracing debba essere scaricata da almeno il 60% della popolazione Italiana (o dal 70% come rilancia il biologo Bucci, anche se penso che ognuno possa rilanciare una percentuale di sua preferenza senza cambiare troppo il concetto). Tornerò su questo meme poco prima di concludere. 

In cosa consiste l’efficacia di una app di contact tracing

Ora, invece, vorrei cercare di definire in cosa consista l’efficacia di una app di contact tracing. Lo scopo di un’app del genere è, come dice il nome stesso, poter ricostruire (to trace) il novero di contatti di una persona (contact) che, ad un certo punto, viene rilevata come positiva al coronavirus Sars-Cov-2: cioè tutti gli individui con cui questa persona possa essere venuta in contatto nei giorni precedenti (una o due settimane prima) e che quindi può aver infettato nel suo periodo di infettività. La tentazione di molti informatici (parlo con cognizione di causa) è quella di considerare una app del genere efficace quando questa permettesse di enumerare questi contatti e quindi permettesse a qualcuno di contattarli, così da sottoporli ad un test molecolare e, se trovati positivi, farli isolare per impedire qualsiasi ulteriore contagio. In effetti, garantire questa funzionalità non è banale e rappresenta una sfida tecnologica rilevante, ma superare questo cimento non rappresenta che il primo passo verso il reale obiettivo di una soluzione del genere.

“In realtà, l’efficacia di queste app deve essere valutata sul piano della loro capacità di spezzare le catene di contagio e, quindi, di ridurre in ultima istanza il numero delle vittime”

Per far questo, una app deve essere considerata un singolo componente di un protocollo ben più ampio (o procedura o programma, nel senso socio-tecnico del termine) che preveda, almeno:

  • il contatto immediato dei potenziali infetti;
  • la verifica tempestiva della loro condizione (possibilmente mentre questi si sono già isolati a partire dalla comunicazione della loro potenziale positività);
  • e, nel caso fossero trovati positivi e quindi infettivi a loro volta, il loro isolamento, anche in strutture preposte e attrezzate, in modo tale che non infettino neppure i loro familiari più prossimi.

A queste iniziative è possibile aggiungere un passo alla fine e all’inizio di questo breve elenco: il monitoraggio (anche attraverso sistemi di telemedicina) dell’evolversi dei sintomi dei contatti effettivamente infetti, per una rapida risposta terapeutica in caso di aggravamento di questi; e, propedeutico a tutto, lo screening per COVID-19 quanto più esteso possibile dei cittadini, sia che questi presentino sintomi caratteristici, sia che invece siano pauci-sintomatici o asintomatici: infatti questa seconda tipologia di persone, potenzialmente contagiose quanto e più delle prime, potrebbe rappresentare una proporzione variabile di tutti gli infettivi, che purtroppo non sappiamo stimare se non nella forma di una amplissima forchetta che va da un numero pari ai positivi sintomatici a quasi quattro infettivi su cinque. Non ho il tempo in questa sede di riflettere su come l’incertezza su quest’ultimo punto non ci permetta di capire se tutto l’esercizio di comprendere se certe soluzioni tecnologiche siano efficaci o meno sia del tutto ozioso oppure abbia un minimo di senso: ammettiamo per amore della discussione che un senso ce l’abbia. 

Quindi, ricapitolando, l’efficacia di una app di contact tracing riguarda la capacità di quest’ultima di abilitare un processo, di grande complessità tecnologica, logistica e strumentale, il cui obiettivo ultimo è la riduzione del tasso di mortalità; oppure del tasso di contagio (il famoso indicatore R0, cioè il numero medio di persone che un infetto contagia a sua volta); oppure (per semplificare e quindi limitarsi a contare le teste nella speranza che così facendo si commettano meno errori sistematici) il numero di ricoverati per COVID-19: poiché quest’ultimo numero rappresenta comunque il numero di persone positive a questa malattia che sviluppano sintomi di una certa gravità, e quindi permette una stima del relativo costo sociale, anche questo può essere un indicatore solido di efficacia.

Costo-efficacia

Ma ecco che ho usato una parola sottovalutata: il costo. Parlare di efficacia (di una app, o del protocollo socio-tecnico che questa rende possibile, e quindi mobilita) ci permette anche di introdurre il concetto di costo-efficacia, cioè del rapporto tra gli effetti di un intervento ed i costi sostenuti per eseguire tale intervento; oltre a ciò, ci permette di ragionare anche in termini comparativi: quando è maggiormente costo-efficace il contact-tracing abilitato da una app che usa il sistema bluetooth, rispetto al contact-tracing abilitato da una app che permetta agli utenti di indicare manualmente le persone con cui sono venuti in contatto (per un certo tempo e ad una certa distanza), oppure rispetto al contact-tracing totalmente manuale, che cioè fa affidamento sulla sola memoria delle persone trovate positive (ovviamente tutto questo a parità di efficacia degli interventi a valle della identificazione del contatto potenzialmente infettivo)?
È presumibile pensare che una app che identifica i contatti tramite bluetooth, cioè automaticamente e grazie, non dimentichiamolo, al fatto che anche chi può essere un potenziale contatto usi la stessa applicazione, possa rilevare un numero molto maggiore di “contatti” da raggiungere in caso di positività di una persona rispetto alle altre soluzioni. Ma quanto più è grande questo numero e tanto è maggiore la costo-efficacia della soluzione? Anche escludendo l’impatto su tale numero dei falsi positivi (cioè delle volte che, ad esempio, l’app identificasse un contatto anche stando fermi al semaforo nella propria automobile affiancata ad altre quattro, o quando due cellulari si rilevassero nel raggio di 2 o 3 metri e fossero divisi da una sottile parete in cartongesso), viene comunque spontaneo chiedersi se il protocollo che impiega una tale app sia, in primo luogo, fattibile (cioè se si riesca a testare e isolare adeguatamente tutte le persone così identificate); sostenibile (cioè, se nel medio e lungo periodo non richieda molte più risorse di quanto si sia in grado di mobilitare, consumare e spendere, in termini di denaro pubblico); e appunto, costo-efficace, cioè non richieda di mobilitare una macchina socio-tecnica per il test a tappeto che semplicemente la nostra società non può permettersi (un singolo test molecolare costa tra i 40 e gli 80 euro, oltre a richiedere materiali specifici e laboratori specializzati). 

Per concludere. Non entro ulteriormente nel merito del meme del 60%, appunto ritenendolo solo un meme giornalistico. Riporto solo due dati: l’applicazione più usata dagli italiani (WhatsApp) alla fine del 2019 era usata da una percentuale inferiore (circa il 57%); la percentuale di italiani che posseggono uno smartphone con le caratteristiche necessarie per utilizzare l’app Immuni può essere stimata a circa il 66%. Ciò detto, non intendo fare ironia o conti triviali. Del resto, anche chi ha prodotto questa stima accattivante ha rilevato come anche percentuali di utilizzo inferiore alla fatidica soglia possano avere un impatto comunque positivo sull’emergenza: ad esempio, sulla base delle loro simulazioni (ed è bene sottolineare, simulazioni), un tasso di adozione del 40% è comunque associato ad una riduzione prevista del numero di vittime da COVID-19 di circa un terzo (circa 50.000 persone in 140 giorni). Poiché non ho indagato il modello soggiacente a queste stime non mi esprimo oltre, nè riprendo un tema già toccato dal prof. Rossetti (con la mia complicità). Ora mi interessa solo rilevare come, al momento, non ci siano studi che possano fornirci prove di efficacia di questo approccio e soluzione. 

A mio parere è quindi eccessiva la fiducia che viene riposta sull’assioma che basti raggiungere un tasso di adozione adeguato (qualunque esso sia) per garantire efficacia.

Infatti l’adozione di una app non comprende solo la sua installazione su un dispositivo mobile. L’efficacia di un app di contact tracing può essere influenzata tanto dai limiti intrinseci della tecnologia, quindi dall’impatto dei suoi falsi positivi e falsi negativi; quanto da diversi fattori umani, quali il “non uso”, il “misuso” e l’abuso.

Il “non uso” non si esaurisce con il novero di persone che non installano l’applicazione; comprende anche chi non attiva la funzione di pubblicazione dei contatti quando sono trovate positive, o chi, se contattato dalla piattaforma perché potenzialmente positivo, non si autodenuncia per richiedere il test e l’applicazione della procedura prevista, per qualsiasi motivo (non del tutto inaspettati); il misuso, o uso improprio, comprende le persone che non usano l’app come previsto o come dovrebbero, ad esempio non portando sempre con sé il proprio cellulare (si pensi al caso notevole dei commessi nel commercio e dei camerieri nella ristorazione, ma l’elenco potrebbe essere lungo) o che disattivano in qualche occasione il bluetooth per risparmiare la batteria del proprio dispositivo; l’abuso, infine, può comprendere vari comportamenti che qui non esploriamo, anche per non fornire spunti deleteri a qualche artista “concettuale” o “buontempone” no-trax. Nelle figura mostriamo comunque come il problema della adozione della tecnologia sia solo la punta dell’iceberg di tutta una serie di fattori, alcuni tecnici, molti altri socio-tecnici e psicologici, che possono minare l’efficacia teorica di un protocollo incentrato sull’uso di una app di contact-tracing. 

“Progettare e definire una sperimentazione adeguata di questo protocollo”

Per tutti questi motivi, concludo davvero esprimendo una speranza: spero che, mentre gli sviluppatori informatici sono impegnati nella definizione degli ultimi dettagli implementativi, qualcuno, nelle numerose cabine di regia istituite per fronteggiare l’emergenza COVID, si attivi presto, prestissimo, per progettare e definire una sperimentazione adeguata di questo protocollo, ad esempio prevedendo la sua applicazione limitata ad alcuni piccoli comuni italiani (quelli con meno di 5000 abitanti, che corrispondono comunque ai due terzi dei comuni italiani), e anche in alcuni centri più grandi, che siano distribuiti nelle diverse zone geopolitiche in cui statistici ed epidemiologici potrebbero voler dividere il nostro Paese. Queste piccole sperimentazioni locali, circoscritte e ben controllate (similmente a quanto fatto a Vo’ Euganeo) potrebbero permetterci, anche nel breve lasso di tempo di 3 o 4 settimane da quando l’applicazione è finalmente disponibile, di capire se il contact tracing (e la macchina logistica per fare i test ai contatti che tale app può aiutare a rintracciare) funzioni davvero; sia sostenibile per tutto il tempo necessario; e sia anche costo-efficace, rispetto ad altri interventi, in contesti simili o più estesi (da usarsi come “controllo”), prima di passare ad applicare tali misure a livello nazionale. Potremmo così raccogliere prove di efficacia (o di inefficacia) su quale intervento sia preferibile tra app di rilevazione automatica dei contatti e app a rilevazione manuale, oppure rispetto al non adottare alcuna app, ma bensì al “limitarsi” alle raccomandazioni low-fi dell’OMS tra cui: utilizzare adeguatamente presidi di protezione individuale, garantire ed esercitare un distanziamento adeguato, sanitizzare gli ambienti con la giusta profondità e frequenza, e adottare misure igieniche personali frequenti e intensificate. Anche queste iniziative richiedono risorse e investimenti importanti, che sarebbe avventato destinare ad altre soluzioni di efficacia ignota o, peggio, presunta, in virtù del potere taumaturgico della tecnologia digitale.