Podcast Post

COVID-19, le ricerche scientifiche viaggiano a una velocità pericolosa con il rischio di alimentare disinformazione e complotti

14 Maggio 2020 12 min lettura

author:

COVID-19, le ricerche scientifiche viaggiano a una velocità pericolosa con il rischio di alimentare disinformazione e complotti

Iscriviti alla nostra Newsletter

11 min lettura

Sin dall’inizio della pandemia di COVID-19 c’è stato un enorme proliferare di pubblicazioni e ricerche scientifiche sul nuovo coronavirus. Una tale mole di materiale è andata a sommarsi a notizie non verificate, dichiarazioni politiche, vere e proprie falsità, rendendo sempre più complicato il lavoro dei giornalisti che devono raccontare la pandemia – e in particolare di quelli che magari precedentemente si erano occupati di tutt’altro.

Qualche settimana fa i divulgatori scientifici Adam Marcus e Ivan Oransky - fondatori di Retraction Watch, blog che traccia gli studi scientifici ritirati o corretti - hanno scritto su Wired che in questo momento la scienza si sta muovendo a una “velocità pericolosa”, sottolineando come tutti questi articoli, studi e ricerche – arrivati per la maggior parte dalla Cina, ma non solo – sul nuovo coronavirus avessero almeno una cosa in comune: quella di essere stati scritti e pubblicati di gran fretta.

“La ricerca dietro un normale articolo richiede mesi o addirittura anni per essere completata, e poi ancora mesi - o più a lungo - per essere pubblicata. Le riviste sottopongono i manoscritti a peer-review (revisione paritaria) prima di decidere se accettarli; e una volta accettati, devono essere editati e poi inseriti in quello che è in genere un lungo processo. Con le pubblicazioni su COVID-19, la timeline è stata radicalmente condensata”, spiegano Marcus e Oransky.

La mancanza di verifica e l’eccessiva di rapidità mettono alla prova quello che il New York Times ha definito “il bisogno della scienza di limiti di velocità”.

Gli studi su piattaforme di preprint

Tra gli argomenti di discussione c’è la grande diffusione di studi preprint (in prestampa), ossia con risultati preliminari non ancora sottoposti a un procedimento di revisione indipendente. Questi tipi di pubblicazione vengono raccolte in piattaforme apposite, nate proprio in opposizione al modello che prevede la peer-review.

Il sistema nel tempo si è consolidato, ricevendo apprezzamenti per la possibilità di diffondere più rapidamente le scoperte e ipotesi scientifiche. La prima piattaforma, arXiv, è stata creata da un fisico americano nel 1991, per consentire a una relativamente piccola comunità di ricercatori in fisica e matematica di condividere tra loro il loro lavoro. Successivamente, nel 1994, un servizio simile è stato sviluppato per le scienze sociali e umanistiche.

Le scienze biomediche sono arrivate dopo. Nel 2013 John Inglis, cofondatore della casa editrice accademica Cold Spring Harbor Laboratory Press di New York, ha dato vita insieme ad altri colleghi a una piattaforma di preprint per le scienze biologiche, bioRxiv, seguita l’anno scorso da una dedicata a quelle mediche, medRxiv.

Tra il 2013 e il 2018 si è verificata quella che un articolo ha definito “la guerra dei preprint”, con la nascita di almeno 18 nuovi server in varie discipline scientifiche.

Le piattaforme danno la possibilità ai ricercatori di pubblicare le loro scoperte preliminari prima della peer-review, per permettere ai colleghi di commentarle. Successivamente, lo studio viene corretto e, a seconda dei casi, proposto a una rivista specializzata o ritirato. Molto spesso, comunque, i manoscritti vengono aggiornati prima di essere ufficialmente pubblicati su qualche rivista. “Questo significa che vengono divulgati agli scienziati più rapidamente di quanto sarebbe possibile se passassero attraverso settimane o mesi di peer-review”, ha scritto Oransky in un commento su Columbia Journalism Review.

Secondo Stuart Ritchie, professore del King’s college di Londra, quella delle piattaforme di preprint è un’innovazione che «accelera il processo scientifico e consente un dibattito aperto sui dati, permettendo a tutti di avere accesso alle critiche e ai commenti fatti agli studi». Questo in condizioni normali. Il problema è che ci troviamo nel mezzo di una pandemia.

Come spiega un articolo di Graham Lawton su NewScientist, nei primi otto mesi di vita su medRxiv erano pubblicati 1.000 studi. Negli ultimi due mesi ne sono stati aggiunti 3.700, la maggior parte riguardanti il nuovo coronavirus e la malattia COVID-19. Un sito dedicato al virus combinato tra medRxiv e bioRxiv contiene ad oggi oltre 2.700 articoli. Questa crescita ha portato le piattaforme a migliorare le loro normali procedure di screening.

Questa proliferazione può essere sicuramente utile per gli scienziati impegnati in prima linea contro il virus, che possono osservare rapidamente gli studi e le ricerche fatte da altri mentre portano avanti le proprie. I primi dati provenienti da Wuhan, all’inizio della pandemia, ad esempio, sono circolati grazie ai siti di preprint. Questo ha agevolato una prima comprensione del virus, con una rapidità che non sarebbe stata possibile seguendo il percorso ordinario della pubblicazione di uno studio scientifico.

Ma c’è un altro aspetto da considerare, che è la crescita esponenziale di persone che improvvisamente si interessano a questi studi non definitivi, che non ne colgono i limiti e che li leggono e diffondono.

Wudan Yan ha riportato sul New York Times che da dicembre le visualizzazioni e i download su medRxiv sono aumentati di oltre cento volte: “Le persone con scarsa o nessuna conoscenza scientifica sono alla disperata ricerca di nuove conoscenze per orientare meglio le loro decisioni quotidiane. I media vogliono mantenere i lettori e gli spettatori aggiornati con gli ultimi sviluppi. E gli agenti della disinformazione cercano di alimentare narrazioni complottiste”.

Secondo Eric Topol, direttore dello Scripps Research Translational Institute di San Diego e membro del board di bioRxiv, chiunque legga uno studio in preprint lo condividerà ciecamente, e magari sceglierà le informazioni che si conformano meglio alla sua visione.

In secondo luogo, ci sono anche molte persone parzialmente o totalmente prive di formazione scientifica o che sono esperti in altri campi che non sono l’epidemiologia che stanno postando articoli su queste piattaforme. «Abbiamo visto alcune affermazioni e previsioni folli su cose che potrebbero curare COVID-19», ha detto Richard Sever, co-fondatore di medRxiv e bioRxiv.

“L’uso e l’uso improprio di ciò che è pubblicato sui server di preprint è una sfida per il normale funzionamento di questi siti e solleva interrogativi su come queste e altre forme di pubblicazione scientifica dovrebbero funzionare durante una pandemia”, scrive Yan.

I giornali e il rischio di diffondere disinformazione

L’articolo su NewScientist riporta come esempio di cortocircuito tra media e ricerche scientifiche legato ai rischi del sistema delle piattaforme di preprint il caso del farmaco antimalarico come possibile cura contro il COVID-19.

Il 20 marzo è stato pubblicato uno studio a riguardo su medRxiv. Tre giorni dopo su un’altra piattaforma è apparsa un’altra ricerca preprint, che criticava la metodologia della prima sperimentazione, che era stata fatta solo su 20 pazienti. Nonostante questo, le conclusioni dello studio apparso il 20 marzo hanno ricevuto grande risonanza: sui media, sui social e sono stati ripresi persino da funzionari e politici, tra cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump – il che, ovviamente, aveva attirato ancora di più l’attenzione dell’opinione pubblica.

Un altro studio riguardante una sperimentazione sullo stesso farmaco – su 62 pazienti in un ospedale di Wuhan, guariti più rapidamente - è stato poi pubblicato il 30 marzo, ancora su medRxiv. I risultati sono stati pubblicati sul New York Times, in un articolo scritto da un giornalista scientifico in cui veniva precisato che la ricerca non era stata sottoposta a peer-review e che era necessario fare ulteriori ricerche. Nel pezzo erano però inseriti commenti entusiasti di alcuni medici. Una circostanza che ha reso credibile lo studio agli occhi dei lettori nonostante diversi problemi metodologici. Difetti che un revisore professionista avrebbe notato subito, ma che sfuggono a chi non ha competenze specifiche sulla metodologia delle sperimentazioni cliniche – che non è detto che anche tutti i medici abbiano.

Nel frattempo negli ospedali si è iniziato a somministrare il farmaco ai pazienti COVID-19, e altre persone se lo sono procurato autonomamente. “Di conseguenza si è anche ridotta drasticamente la disponibilità per chi ne aveva bisogno per curare l’artrite reumatoide, e risorse scientifiche che sarebbe stato meglio impiegare in altri ambiti sono state incanalate verso la ricerca sul farmaco”, scrive Lawton. “Questo esempio dimostra quanto sia difficile, anche per un giornalista esperto, notare errori gravi in una ricerca”.

Dalla loro nascita, queste piattaforme hanno scatenato un acceso dibattito in seno alla comunità scientifica, tra chi le vedeva come un’eliminazione delle barriere all’accesso dell’informazione accademica online, e chi esprimeva preoccupazione sulle conseguenze sulla salute pubblica della possibile diffusione di informazioni non corrette.

Tra le voci che sin da subito hanno invitato alla prudenza c’è l’organizzazione inglese Science Media Centre (SMC), che elabora buone pratiche per giornalisti e scienziati per comunicare al pubblico informazioni scientifiche accurate. Fiona Fox, a capo di SMC, ha spiegato che la maggiore preoccupazione riguardava il fatto che studi preprint su argomenti come vaccini o sigarette elettroniche potessero arrivare al pubblico attraverso i giornali, prima di essere sottoposti a peer-review.

Per questo motivo il SMC ha elaborato delle linee guida e chiesto agli scienziati che hanno pubblicato su server preprint di non promuovere i loro studi attraverso comunicati stampa fino alla pubblicazione da parte di qualche rivista. Fox ha raccontato al giornalista Gautama Mehta su Coda che per un certo periodo le università hanno seguito queste linee guida. Poi è arrivato il nuovo coronavirus, e tutto è cambiato.

Data la rilevanza centrale assunta dagli studi preprint nella lotta a COVID-19, era inutile che SMC continuasse a chiedere di non pubblicizzarli. A marzo il centro ha cambiato strategia, sollecitando commenti di esperti terzi sugli studi preprint nei loro campi che stavano ottenendo maggiore attenzione mediatica. In alcuni casi, gli scienziati hanno espresso parecchie riserve.

Ad esempio, riguardo a uno studio condotto da ricercatori cinesi che sosteneva di aver trovato evidenze – basate sulle cartelle di pazienti a Wuhan e Shenzhen – di un maggiore rischio di infezione associato al gruppo sanguigno A. Il professore interpellato dal SMC sostanzialmente bocciò lo studio. Ciononostante, questo ottenne un’enorme diffusione sui media: secondo un’analisi, è stato ripreso da 126 giornali, 13 blog ed è stato menzionato nei tweet di 3958 account. In alcuni articoli non veniva citato il fatto che la ricerca fosse ancora preprint, mentre una TV USA ha inserito lo studio in un fact-checking per verificare se i possessori di gruppo sanguigno A fossero più suscettibili alla malattia dal nuovo coronavirus.

Un altro caso di disinformazione riguarda una ricerca postata su una piattaforma preprint di un gruppo di scienziati dell’Indian Institute of Technology di Delhi, che lo scorso gennaio ha alimentato teorie complottiste secondo cui il virus sarebbe stato un’arma biologica creata in laboratorio. Il documento sosteneva di poter identificare una “strana somiglianza” tra il nuovo coronavirus e l'HIV. La ricerca è stata ritrattata dai suoi autori due giorni dopo la pubblicazione, ma i primi articoli usciti sullo studio sono rimasti online e hanno continuato ad alimentare la disinformazione sulle origini del virus. Luc Montagnier, premio Nobel nel 2008, lo ha citato ripetutamente per supportare una teoria cospirazionista secondo cui il virus sarebbe stato creato da scienziati cinesi mentre stavano sviluppando un vaccino per l’HIV.

Ogni giorno l'ecosistema informativo ha le sue pene. In questi giorni una delle disgrazie che sta circolando è quella...

Pubblicato da Valigia Blu su Domenica 19 aprile 2020

Una delle maggiori questioni sollevate dalla copertura degli studi preprint è che i giornalisti che coprono le notizie sul coronavirus non sono sempre reporter scientifici. Molti non si sono mai occupati di scienza, e non sanno nemmeno cosa voglia dire peer-review o preprint. E questo, afferma Mehta, si traduce in un altro problema: i preprint diventano “essenzialmente discariche di informazioni che richiedono competenza scientifica per giudicare o contestualizzare”.

Ad ogni modo, non è possibile addossare tutta la responsabilità ai preprint. Il sito dedicato agli articoli preliminari su COVID-19, tra l’altro, avvisa chiaramente i lettori della natura degli studi, avvertendoli di non utilizzarli per stabilire terapie e di non diffonderli come informazioni accertate. I server solitamente forniscono un minimo controllo dei contenuti pubblicati, per verificare le credenziali degli autori, eventuali plagi o spam. Quando un documento non soddisfa questi standard, non va online. Tuttavia, a parte questo, non interviene nessun’altra modifica.

I preprint, scrivono Marcus e Oransky su Wired, “sono dei work in progress – come ogni cosa quando si parla di scienza – e non dovrebbero essere considerati completamente affidabili di per sé né come evidenze scientifiche né come base per qualsiasi politica pubblica”. E questo dovrebbe valere anche per gli studi sottoposti a revisione paritaria.

L’abbondanza di ricerche sul coronavirus, infatti, sta influenzando anche i procedimenti di peer-review nelle riviste scientifiche, che hanno visto incrementare le proposte di pubblicazione a tema coronavirus – e molte di queste non sono di alta qualità. Secondo un preprint postato ad aprile su bioRxiv, molte riviste di ricerca scientifica hanno accelerato moltissimo il processo di pubblicazione per studi su COVID-19 – in alcuni casi sono passate meno di due settimane dall’invio.

In ogni caso, come spiegato a Nature da Theodora Bloom, executive editor del British Medical Journal e cofondatrice di medRxiv, il ruolo delle riviste è sempre quello di pubblicare contenuti sottoposti a revisione e affidabili, non di pubblicare il prima possibile. Considerato che la pubblicazione su una rivista dà allo studio un’apparenza di affidabilità, «informazioni scientifiche non corrette o insensate sono potenzialmente molto più dannose».

Cosa possono fare i giornalisti

Ivan Oransky su Columbia Journalism Review ha compilato una serie di consigli per i giornalisti su come orientarsi e come utilizzare queste fonti.

1) Leggi sempre lo studio per intero

I comunicati stampa relativi a ricerche o gli abstract – che provengano da università, giornali o aziende – sono fatti per essere appetibili e farli girare. Molti editori e autori sono ben contenti di inviare i PDF di studi che sono a pagamento se necessario.

2) Fai domande “stupide”

Molti giornalisti scientifici – in particolare quelli che hanno una formazione scientifica – temono che le fonti possano giudicarli se pongono quelle che vengono considerate domande “base”. Solo che poi si ritrovano con i taccuini pieni di termini e gergo scientifico senza averne reale comprensione. Neanche i lettori e gli spettatori conoscono quel gergo.

3) Fai domande intelligenti

Se proprio vuoi stupire la tua fonte, vai in profondità. Dove è stato pubblicato lo studio – se è stato pubblicato? È stato testato sull’uomo o su animali, dove spesso i risultati non si traducono in pratica clinica? Lo studio è stato pensato per scoprire quello che sostiene di aver trovato?

4) Cerca i limiti

Le buone riviste non permettono agli autori di tralasciare i limiti del loro lavoro. La dimensione del campione ha distorto lo studio? Qualcosa che lo studio non ha potuto controllare ha reso i risultati meno significativi? I limiti ci sono. Cercali.

5) Chiarisci il tuo punto di vista

Va bene scrivere su uno studio preliminare perché è probabile che giovi a un’azienda locale o perché è affascinante. Però non far sembrare che i risultati siano una cura per COVID-19.

6) Evita allarmismo

Una cura può funzionare perfettamente, ma solo su una parte della popolazione. Oppure un farmaco può essere approvato, ma solo per casi limitati. Non far intendere che milioni soffrono per una malattia se i numeri sono molto ridotti o che un’infezione sia potenzialmente mortale quando non lo è.

7) Quantifica

Sii chiaro con i numeri. Quando dici “i pazienti sono migliorati quando hanno iniziato questa cura”, a quante persone ti riferisci?

8) Quali sono gli effetti collaterali?

Ogni cura ha degli effetti collaterali, e non li troverai elencati in un comunicato stampa o in un abstract. Leggi il documento a fondo, oppure fai un’altra domanda “stupida”.

9) Chi ha abbandonato la ricerca?

Pochi studi vengono terminati dallo stesso numero di persone che era presente all’inizio. Le persone cambiano città o si stancano di essere coinvolte nello studio clinico e abbandonano. Ma a volte quelli che lasciano sono più della media, e questo potrebbe essere un motivo di preoccupazione. Scopri se gli autori hanno fatto quella che viene chiamata analisi “intention to treat” (un’analisi statistica dei partecipanti a uno studio clinico, basata sul gruppo a cui sono stati inizialmente assegnati, e non sul trattamento infine ricevuto).

10) Ci sono alternative?

Il fatto che un nuovo farmaco abbia funzionato a meraviglia è una grande notizia, finché non scopri che nello studio non c’era nessun gruppo di controllo, quindi non puoi sapere cosa sarebbe successo se i partecipanti non avessero assunto quella medicina. Lo stesso vale per gli studi osservazionali che rivendicano un legame tra una particolare dieta o stile di vita e salute.

11) Chi ha interesse?

Leggi le informazioni alla fine delle ricerche, tenendo presente che molte sperimentazioni cliniche sono finanziate da aziende, e che questi legami sono correlati a un tasso più elevato di risultati positivi. Questi stessi conflitti d’interesse possono essere delle storie.

12) Non fare affidamento solo sugli autori dello studio per tutto l’articolo

Così come vorresti cercare un commento esterno su un’altra storia, cerca le opinioni di esperti non legati a quello studio.

13) Usa gli aneddoti con cautela

Iscriviti alla nostra Newsletter


Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it.

Uno stile narrativo può essere molto potente, ma può lasciare l’impressione che un trattamento funzioni – o sia dannoso – quando non è così. Se includi solo storie di successo, non dipingi un quadro completo.

14) Fai attenzione al linguaggio

La correlazione non è la causalità. Non utilizzare parole come “riduce” o “aumenta” quando tutto quello che sai è che un certo fattore è correlato a un altro. Parole come “legato” o “associato” sono più corrette.

Foto anteprima di felixioncool via Pixabay

Segnala un errore