Il contact tracing non c'entra niente con i giochini su Facebook

Finiamola con le battute “brillanti” sui quiz di Facebook: il fatto che molta privacy sia già stata ceduta sul web non annulla il problema delle app di contact tracing – o la necessità di discuterne in modo onesto, trasparente e collettivo
Il contact tracing non c'entra niente con i giochini su Facebook

Il tema della privacy è stato messo al centro del dibattito attorno alle misure che i governi di mezzo mondo stanno discutendo per la cosiddetta fase 2 della pandemia che, progressivamente, dovrebbe portare a una reintroduzione delle nostre libertà di movimento. Sulla scia delle esperienze di alcuni paesi – perlopiù asiatici – anche in Europa e in Italia si fanno progetti per il contact tracing, lo sviluppo, ovvero, di tecnologie per mappare l’andamento del contagio e le relazioni sociali che potrebbero favorirlo. In Italia sta per essere varata l’app Immuni, sviluppata da un’azienda privata e scelta tra una serie di proposte avanzate da diversi attori, anche accademici e di primissimo piano.

I dettagli sull’app sono fin qui emersi un po’ alla volta in forma di indiscrezioni sui giornali: a quanto si è appreso si baserà sul Bluetooth, ma non è ancora chiaro se avrà un approccio centralizzato oppure de-centralizzato; il suo utilizzo sarebbe stato quasi-obbligatorio (ieri) e non obbligatorio (oggi). Nel caos generato da una comunicazione istituzionale non adeguata alla serietà del tema si è fatto confusione, si sono avanzate proposte assurde e a un certo momento persino la possibilità dei braccialetti elettronici per gli anziani è sembrata ad alcuni una soluzione accettabile in una democrazia compiuta. E il tema della privacy è tornato a essere l’unico su cui la pretesa di preparazione degli esperti e delle opinioni viene abbandonata.

In questo scenario si è fatto strada – principalmente nelle discussioni online delle bolle e da parte dei sostenitori delle soluzioni di contact tracing – un frame narrativo per il quale i cittadini sarebbero ben disposti a cedere i loro dati personali per ragioni frivole – spesso si parla di quiz online sui social media, cose tipo “Che verdura sei?” – ma sarebbero, al contrario restii a cedere le medesime informazioni allo stato e per fini sanitari. Scemi i cittadini, insomma, accusati di essere attenti alla loro privacy a corrente alternata o per i motivi sbagliati. Sprovveduti loro, ad avanzare pretese o preoccupazioni – o “fisime”, come si è anche letto – per la loro privacy proprio ora. In realtà quella argomentazione si fonda su basi fallaci, restringe allo stremo il campo della discussione e svilisce un dibattito su quello che, è bene ricordarlo, è un diritto fondamentale.

In primis, che l’economia dei dati – specialmente la sua parte al di fuori dei social media – sia un colabrodo che espone i dati delle persone a sfruttamenti opachi, poco trasparenti e pochissimo normati, è un dato di fatto. E sul fatto che i quiz comportamentali online che raccolgono in modo subdolo molti più dati di quelli che danno a vedere siano problematici non c’è dubbio alcuno: il caso Cambridge Analytica, ad esempio, nasceva proprio da qualcosa di simile. Questo non significa, però, che accettare di prendere parte a un giochino del genere – in cui spesso si cade proprio per via della loro poco trasparenza – equivalga, quanto a implicazioni, a essere inseriti in un progetto di tracciamento sanitario voluto dal proprio governo nel mezzo di una pandemia. Si tratta di due piani completamente diversi, con approcci, problematicità e threat model completamente differenti. Certo, nel capitalismo della sorveglianza il mondo del tracciamento corporate e quello politico/governativo sono spesso molto vicini – quando non vanno proprio a braccetto – ma specialmente se si tratta di ambito sanitario, non si possono confondere completamente i due piani, riducendo il contact tracing a una mera necessità burocratica o, appunto, a un giochino online. E il fatto che la dimensione commerciale della sorveglianza sia molto problematica, non significa automaticamente che quella statale sia ineluttabilmente benigna o da incoraggiare acriticamente.

Allo stesso tempo non è più accettabile continuare a prendersela con i cittadini e gli utenti, riducendo la sfera della privacy a qualcosa di puramente individuale. La privacy agisce sempre in una dimensione collettiva e riguarda le interferenze che accettiamo e quelle che rifiutiamo nella libertà della nostra società; riguarda i perimetri di azione dello stato e dei poteri e i perimetri democratici. Non è un vezzo borghese, un orpello di individualismo o un privilegio. L’argomentazione che vede i cittadini come di corte vedute, irresponsabili e – ovviamente – manipolati è figlia di diversi problemi endemici della società dei dati in cui abitiamo: la sua poca trasparenza e il “realismo della sorveglianza”.

A lungo, almeno da quando è esploso a livello mainstream il tema dell’information disorder e delle sǝu ǝʞɟ, si è giustamente insistito sulla necessità di fornire ai cittadini strumenti e competenze utili a vivere al meglio gli ambienti digitali e si è tanto parlato (di nuovo, più che giustamente) di media literacy o alfabetizzazione mediatica. In questo dibattito pandemico su tracciamento, privacy e diritti, non ci si può dimenticare come gli utenti e i cittadini siano più che altro vittime di piattaforme poco trasparenti e di attori – come i data broker – estremamente aggressivi e di varie e molteplici forme di data extractivism subdole se non fuorilegge. Mentre si dà a cuor leggero spazio a iniziative di tracciamento statale con implicazioni profonde come quelle di cui si legge in queste settimane, non si può semplicemente bollare in modo paternalistico i cittadini di dabbenaggine, dimenticando il contesto in cui le loro scelte in termini di servizi digitali sono state prese. Zeynep Tufekci, una delle accademiche più attente e lungimiranti su questi temi, da tempo sostiene come il “consenso informato” su internet sia una mera illusione.

Al contrario, quella argomentazione giustificazionista è figlia dello stesso problema che vorrebbe combattere, il realismo della sorveglianza. Il concetto è stato coniato dalla ricercatrice Lina Dencik sulla base del realismo capitalista di Mark Fisher: indica una “atmosfera pervasiva” che annulla ogni possibilità di alternative alla sorveglianza, che si genera quando un clima culturale arriva addirittura a rendere impossibile immaginarle. A questa forma mentis si deve quella argomentazione che sembra dire: la privacy è già abolita – scemi voi! – ora non lamentatevi, circolare. Si tratta, però, di un falso. Il fatto che molta privacy sia già stata ceduta con la commercializzazione del web non neutralizza oggi le problematicità del contact tracing o la necessità di discuterne in modo onesto, trasparente e collettivo. Nessuna tecnologia è un destino ineluttabile e i cittadini che sollevano preoccupazioni a riguardo delle loro salute e delle loro libertà vanno ascoltati, non derisi. Sono il corpo della democrazia che tutti, governo, media e task force varie dovrebbero difendere, informare e includere.