Giovanni Lindo Ferretti: «Sono uno stronzo reazionario e intrattabile» | Rolling Stone Italia
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Giovanni Lindo Ferretti: «Sono uno stronzo reazionario e intrattabile»


Nascosto in una casa senza citofono in un paese che conta 70 abitanti, il cantante di CCCP, CSI e PGR non pensa alla musica, non compra vestiti e non rimpiange gli anni in cui era popolare. «Sono libero grazie al mio passato»

Foto: Alex Majoli

Punk e religiosissimo, eremita e leader di band musicali di culto, schivo eppure accogliente. Per capire meglio il mistero che ruota attorno alla personalità di Giovanni Lindo Ferretti è necessario inerpicarsi a quasi mille metri sul livello del mare. Cerreto Alpi, frazione di Ventasso in provincia di Reggio Emilia, è parte integrante di una persona, un artista, un salmodiante che ha dedicato la propria vita al senso delle parole e al suo contrario, alla fedeltà alla linea (ieri dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) e alla fede cattolica (oggi il riferimento è il papa emerito Ratzinger), al ritorno alla casa dei «miei vecchi» tra abitazioni in pietra, un bosco, un ruscello e gli amati cavalli, ma senza abbandonare del tutto l’attività degli spettacoli – e un libro a breve – che lo vedono perennemente tra i personaggi più acclamati dal vivo. In definitiva alla creazione di un mondo personalissimo, materiale quanto spirituale, e per questo affascinante.

Nessuna intervista concordata. Con lui è impossibile, soprattutto negli ultimi anni. Tanto che il manager, quando lo chiamo per contattarlo, mi risponde: «Ti metto in lista, sei il 51esimo». Eppure, valeva la pena provare a salire fin quassù a chiederglielo di persona, visto che con i CCCP e passando per i CSI e i PGR ha segnato la musica italiana come pochi altri. Luci della Centrale Elettrica, Linea 77, Marlene Kuntz, Massimo Volume, Ministri, Offlaga Disco Pax sono solo alcune delle realtà ispirate da quell’epopea di punk all’italiana. O se volete, all’emiliana.

A Cerreto c’è un unico circolo sportivo, che funge da bar, alimentari, luogo di ritrovo e dove giornalmente ci si conta. «Da poco abbiamo fatto i calcoli e siamo una settantina», spiega Elisa, una giovane affabile e sorridente che gestisce il locale di famiglia, «ma purtroppo sono quasi tutti anziani e lo spopolamento è evidente». Eppure, per le strade incrocio due bambini, che si divertono come matti a constatare come riesca a perdermi in un paese con poco più di due strade.

Sulla porta di casa nessun citofono, bisogna bussare. Quando esce, nonostante la gentilezza, mi gela: «A un’intervista non ci penso neanche». E così la butto sul romanticismo: «Adesso che sono qui, capisco perché hai deciso di tornare nel tuo paese». Lui annuisce e ricorda che, nonostante la bellezza del paesaggio, ci sono tutti i problemi di ogni comunità. Quando siamo sul punto di salutarci, con mia grande delusione, arriva un aiuto inaspettato: un cagnone con i “rasta” bianchi e grigi a coprire gli occhi che mi annusa sospettoso e poi inizia a grattarmi una gamba con la zampa, come se volesse trattenermi. Come si chiama? «Scampato». Un nome che è tutto un programma. A quel punto Ferretti, forse fidandosi del fiuto del segugio, mi dice: «Vuoi entrare a bere una genziana? Me l’hanno appena regalata, dev’essere buonissima, così facciamo due chiacchiere». Scherzo del destino, l’ho scampata grazie a Scampato. Ma non provateci, perché al momento dei saluti ricevo istruzioni precise: «Metti in giro la voce che sono uno stronzo reazionario e intrattabile, così non viene più nessuno».

Come mai, nonostante questa vita ritirata, continui a fare concerti?
Ho un patto gravoso con il mio “borbonico” manager, Sergio Delle Cese, da circa 15 anni: finché non sbaglio due concerti, continuiamo a farli. Non più di 15-18 l’anno. Alle mie finanze fanno anche comodo. Mi stupisce che la gente continui a riempire tutti i posti. Siccome ai patti bisogna tener fede, continuo a esibirmi.

C’è un video sulla tua pagina Facebook, dove si vede chiaramente il tuo stupore nel constatare che la folla davanti a te sta cantando Curami con grande partecipazione, anche se composta da giovanissimi.
Curami non volevo più farla dal vivo. Pensavo fosse un pezzo ormai del passato. Invece gli altri della band mi hanno spinto e abbiamo provato. Io rimango sempre incredulo nel vedere questa partecipazione. Avevano ragione loro.

Come te lo spieghi?
Alla musica non ci penso mai, se non il giorno del concerto. Prima devo far sì che questa casa resista senza di me: i miei vecchi, i cavalli, la comunità. Mentre scendo in auto ripasso le canzoni, penso se ho voglia di cambiare la scaletta, poi con il soundcheck mi ricordo se sto facendo bene, il resto del concerto viene da sé, è bellissimo per questo, e quando è finito è finito. Non ci penso più fino al prossimo. Poi purtroppo non dormo la notte successiva, perché non sono più capace di stare in albergo, vomito tutto quello che ho mangiato e ci metto 24 ore per riprendermi. E quando rientro in una dimensione quotidiana che non ha niente a che fare con il concerto è tutto passato.

Foto: Alex Majoli

A cosa ti stai dedicando in questo periodo?
Alla quotidianità, che è indispensabile. Si vive un giorno dopo l’altro. Siccome sono vecchio e intorno a me ho dei vecchi, sono molto impegnato a far sì che i miei vecchi stiano bene. Ne ho uno di 94 e uno di 86 anni, mi fanno tribolare. Poi c’è il paese, che è la mia comunità, e abbiamo sempre qualche piccolo problema o enormi tristezze irrisolvibili da considerare. Dopo, ci sarebbe un orizzonte culturale, visto che non si vive di solo pane e sforzi sociali e familiari. L’ultimo progetto non è andato tanto bene, ma era nell’ordine delle cose.

Ti riferisci al all’opera equestre che hai portato in giro per qualche tempo?
Sì, ho tentato di inserire i cavalli in un teatro barbarico, ben sapendo che era una scommessa impossibile. Una cosa di questo tipo, di questi tempi e con le leggi attuali, non poteva avere grande respiro. Ma quel lavoro mi concedeva un orizzonte in cui muovermi e adesso mi manca.

Ti senti schiavo del tuo passato?
Non ho un rapporto di servitù con il mio passato, anche perché è l’unica cosa che possediamo. Ci sono dei fardelli ben peggiori, nonostante il mio ponga qualche problema. Ma non farei cambio con quello di nessun altro. Anzi, mi stupisce che passando i decenni comincio a cambiare idea sulle cose. Quando sono finiti i CCCP ero cosciente di essere all’apice della mia dimensione pubblica, qualsiasi cosa dopo sarebbe arrivata in un ordine che nasceva da quello. La storia ci è capitata tra le mani al di là di ogni aspettativa. Infatti, una volta finita, pensavo che i lavori più forti dei CCCP, come Emilia paranoica o Spara Jurij, non avrei più potuto usarli nella vita. Ma se fosse per me, canterei soltanto Emilia paranoica per un’ora e un quarto, mettendoci dentro tutto quello che mi passa per la mente senza averlo ragionato precedentemente. Comunque, sono libero grazie al mio passato.

Come ti spieghi tante polemiche a ogni tua esternazione pubblica? È sempre per via del passato “fedele alla linea”?
Sta nell’ordine delle cose. Quando abbiamo formato i CCCP per noi erano seri. Le provocazioni di allora, io e Zamboni, non le notavamo assolutamente. A un certo punto, accetti il fatto che quella che per te è una constatazione, magari sgradevole, a molti suona come una provocazione.

Per semplificare all’osso, non ti hanno mai perdonato il passaggio da sinistra a destra. Per di più con una fortissima connotazione cattolica.
È giusto, perché c’è una immagine pubblica forte. Ma se qualcuno ha detto “i CCCP sono dei nostri”, prima di affermarlo doveva darsi il tempo di vedere che cosa erano davvero i CCCP. Se uno avesse guardato con più attenzione, avrebbe capito che erano qualcosa di maggiormente complicato, cioè difficili da catalogare come “questi vanno bene per il Primo maggio a Roma”. Ognuno di noi si appropria di quello che vede e lo fa suo, il problema è che poi si trasforma in alterità.

Recentemente Marco Philopat è tornato ad accusarti di aver usato la scena dell’epoca per avere successo, sottolineando che non eravate un gruppo punk. Ti va di chiarire una volta per tutte che cosa erano i CCCP?
Erano una forma teatrale spuria che ha approfittato del punk, che era la condizione di base di quegli anni. Senza il punk i CCCP non avrebbero potuto esistere, non avevano nessuna capacità e nessun interesse ad averla. Io non sapevo cantare e non avevo nessuna voglia di imparare e il punk mi ha permesso di farlo comunque, rispetto alla musica classica. Quindi, solo in quel momento e in quelle condizioni potevamo nascere. I CCCP sono stati, nel loro piccolo, un accadimento culturale. Io e Zamboni li vedevamo come l’ultimo rimasuglio delle avanguardie letterarie del secolo ‘900, dopo dadaismo e surrealismo. Portavamo sul palco il malessere di una generazione. Il punk, come tutte le scuole, era già fissato nel suo stile e le band dovevano rientrare in quelle regole. Ma i CCCP non le seguivano, almeno non tutte, ma allo stesso tempo non potevi dire che non fossero punk. Personalmente, invece, io sono un vecchio punkettone e lo sono anche quando vado in chiesa. È una attitudine.

Si può essere punkettoni e cattolici praticanti?
Ci sono santi punkettoni da tutte le parti. San Filippo Neri, per esempio. Si era persino rasato i capelli a metà della testa, per dimostrare una idiosincrasia nei confronti del potere papale, di cui però alla fine era comunque succube, perché nessun prete può rifiutare il potere papale.

Quando ti dicono che vuoi fare il guru, come la prendi?
Questa è pesa, sei una bestia! Fa parte di accettare che al mondo esistano le diversità. Se mi dici “sei un guru” per me è una offesa, anche se me lo dicono per farmi un complimento. Il guru è al di fuori di tutto quello che è il mio immaginario possibile e immaginabile. Per cui sentirmelo dire mi farebbe molto arrabbiare. È ovvio che non mi arrabbio, perché ci sono cose ben più importanti a cui pensare. Però un po’ di tristezza rimane. Sono figlio del mondo occidentale, non trasportabile in un’altra dimensione o logica. Il mondo è pieno di fraintendimenti, anzi, i fraintendimenti creano la vita. Tutto sarebbe ovvio, altrimenti, ma di ovvio non c’è niente.

Foto: Angelo Trani

Recentemente ho incontrato Giorgio Canali e di te mi ha detto: «È un massimalista, allora aveva bisogno del “Papa” Togliatti e ora di Papa Benedetto XVI».
È banalizzante, ma in fondo è così. Un uomo ha bisogno di una chiesa. Io ho accettato il fatto che la chiesa scelta non era quella giusta e me ne sono trovato un’altra.

Come vivi la chiesa di Papa Francesco?
Male! Anche se il Papa è una dimensione sacramentale e va oltre al raziocinio e alla logica. Il Papa è il Papa, fine. Dopodiché, i fedeli non sono costretti a rapportarsi a tutti i papi nello stesso modo. Il mio Papa era Ratzinger e non può essere Bergoglio, perché Papa si è per sempre. Non si sostituisce. Fortunatamente abbiamo la meraviglia di avere due papi in contemporanea.

Come ti sei spiegato la rinuncia di Benedetto XVI?
Intanto l’ho accolta malissimo. Io sono molto in sintonia con lui, per me era già il Papa anche prima che lo diventasse. Sono stato un bimbo cattolico, non sarei riuscito a inventarmi a metà strada qualcosa che fosse così profondo dentro di me. La rinuncia di Ratzinger l’ho percepita come un segnale orribile dei tempi. Che, per semplificare, ha significato la fine dell’Europa. Benedetto XVI è l’incarnazione dell’Europa e di una spinta per cercare di far pace con la componente russa-slava. Insomma, di un pontificato che potesse rimescolare le carte con il mondo ebraico e ortodosso. Lo considero la dimensione vivente della più grande cultura europea. La sua rinuncia, quindi, è stata come dire che l’Europa non esiste più. La Rivoluzione francese aveva dato una bella botta alla civiltà cristiana, però le origini stavano ancora all’interno del cristianesimo. Nello stesso tempo, continuo a pensare che se il Papa ha rinunciato ha fatto bene, perché l’ha pensato ed è arrivato alla conclusione che fosse la cosa migliore da fare. È comunque una brutta avvisaglia di ciò che sarà.

Cosa rimproveri e Bergoglio?
Niente, il Papa è quello che è. Non sta nella logica degli uomini mettere in discussione il Papa. Potrei dirgli che gli rimprovero tutto, cioè non gli rimprovero niente. Non è il cardinal Bergoglio, adesso è il Papa.

Il tuo manager quando gli ho proposto una tua intervista mi ha detto: «Ti metto in lista, sei il 51esimo che me lo chiede». Perché sei così schivo?
Parlo molto volentieri, però fare interviste non ha senso. C’è un eccesso di comunicazione che azzera qualsiasi cosa. Come sul coronavirus, quello che sta succedendo è arrivato anche a Cerreto Alpi, ma non abbiamo svuotato il bar e la gastronomia del paese.

Elisa, la gentile titolare del bar, mi ha detto che ogni mattina vi contate in paese.
È vero. L’altro giorno ho fatto fatica ad accettare che fossimo una settantina. Mi ero messo nella testa che eravamo non più di cinquanta. Però sono state incluse anche le badanti. Non ci pensavo, effettivamente abitano qui a tutti gli effetti. È un paese di vecchi, con persone che non escono mai di casa, però bisogna considerare anche loro. È un piccolo borgo ma abbiamo tutti i problemi di tutte le comunità: le divisioni, gli odi, i rancori. Cerreto Alpi, come dinamiche, è come l’Onu. Nella perfezione del microcosmo, puoi osservare tutti i macrocosmi, perché gli uomini funzionano così.

Hai mai pensato di fare politica?
Da ragazzino ero molto affascinato dalla politica. Per me è stata la crescita, l’abiura della religione, della famiglia, della storia, della geografia. Ho pensato per un buon periodo che la salvezza umana stesse nella politica. Però i CCCP sono nati proprio perché era già evidente che non era quella la via della salvezza. La politica come funzione liberatoria dell’umano è qualcosa che colloco negli anni ’60 e nella coda dei ’70. Certamente non ne puoi fare a meno, si ripresenta, è una necessità, accettando il fatto che sulla politica si accumulano una serie di aspettative che non dovrebbero appartenerle. La più grande è la domanda “chi ha creato il mondo intorno a me?”.

Un po’ come il comunismo.
Il comunismo emiliano, in particolare, che aveva tolto Dio e il peccato e aveva trasformato la politica in una religione laica. Ma aveva mantenuto intatte le forme rituali.  La politica è una dimensione che fa i conti con una verità profonda. Bisogna essere nati per fare politica, se non ci sei portato non puoi farne un mestiere. Uno non vale uno. Uno è uno e non è sostituibile.

La tua vicinanza a Giorgia Meloni riguarda la difesa della cultura cattolica?
Sono nato e cresciuto in una famiglia cattolica, reazionaria, ma da sempre antifascista. Non è mai entrata una ideologia del ventesimo secolo nei miei vecchi. Erano medioevali. Sono stato un giovane estremista di sinistra, poi un uomo di sinistra e fino a un certo punto non avevo mai conosciuto nessuno che la pensasse in modo diverso. Ho sempre ritenuto che la destra fosse il male, l’infamia. Alla fine di un lungo processo, faticoso e doloroso, ho scoperto che la sinistra non era tutto quel bene che raccontava in giro, che anche noi eravamo essere umani con dei difetti. Così ho guardato dall’altra parte, scoprendo che ci sono persone interessanti, capaci e lodevoli. Giorgia Meloni è una di queste. Tra tutti, una di quelle che stimo di più. Mi piace il suo essere una giovane borgatara romana che si è costruita una dimensione politica perché lei, sì, è nata per la politica. Senza dimenticare che la politica è una buona occasione anche per far uscire il peggio di sé.

Insomma, in Emilia Romagna alle ultime elezioni tifavi per la vittoria della destra?
Assolutamente sì. Nel periodo iniziale ero scettico, perché nel mio isolamento da eremita ho comunque buone frequentazioni benché rarefatte. E spiegavo a chi avevo vicino come fosse impossibile per Salvini vincere in Emilia Romagna, ancor di più per una donna come Lucia Borgonzoni. Poi, però, per un attimo in paese ci è sembrato di potercela fare.

Cosa credevi potesse portare di positivo la destra in questa regione da sempre “rossa”?
La fine di un sistema. In Emilia Romagna si è instaurato un potere, che non è dittatoriale o criminale, ma è soffocante. In un regime di democrazia non è plausibile che nei posti decisionali rimangano le stesse persone per 70 anni. Dopo ogni passaggio generazionale, purtroppo, si peggiora un po’. Io da buon montanaro mi guardo intorno e il Pd è sparito da tutte le montagne, trovando sostegno solo nelle grandi città. Bisogna riconoscerne i pregi, non è tutta negativa questa gestione del potere, però era necessario un cambio.

Nonostante Salvini e Meloni vengano spesso accusati di essere razzisti?
Tu forse sei troppo giovane per conoscere gli altri, ma io no. Trasformare il razzismo in una dimensione politica sta nelle cose orribili che stiamo vedendo. La bontà o la cattiveria come parametro politico mette molta tristezza.

C’è razzismo anche a sinistra?
Tutto quello che la sinistra rimprovera alla destra fa parte della sinistra e viceversa. Perché fa parte dell’uomo. Prendi una piccola cosa, la isoli, togli il contesto e la ergi a simbolo. Ma è un gioco veramente da poco.

Foto: Riccardo Hamrin

Su queste montagne il tempo sembra trascorrere in modo diverso. Tu come lo vivi?
Intanto io sono vecchio, ci tengo! A 67 anni non potete menarmela che sono giovane dentro. Non ho problemi con la dimensione cosmica del vivere, ho problemi con il piccolo. Per me è meraviglioso invecchiare. Sono stato un bambino molto felice, un adolescente inquieto, un giovane problematico, ho corso una serie infinita di rischi, mi sono barcamenato attraverso i peccati e se Dio mi concederà di diventare un grande vecchio, mi auguro di esserlo come capita. È orribile l’idea di un eterno presente. Non è concesso. È una lotta inutile. Diventa ideologia.

Nessun rimpianto?
Sono tra i pochi che rifarebbe il mondo esattamente com’è. Dio lo ha creato perfetto con gli uomini dentro, con qualche piccolo problema: la sofferenza, il dolore, il male. Tutti quelli che conosco saprebbero ricostruire il mondo un po’ meglio. Ecco, io no! La volontà di fare del bene produce dei mali inimmaginabili. Agli uomini non è concesso un giudizio su qualcosa che li travalica.

Vedo che sulla scrivania hai molti libri. Stai preparando qualcosa?
Proprio in questi giorni ho spedito alla Mondadori il testo di un nuovo libro, che contiene scritti su cui ho molto meditato. Nell’agosto scorso i miei vecchi hanno avuto un crollo e l’autunno è stato pesante, quindi ero costretto in casa tutti i giorni. Così, mi sono accorto che negli ultimi dieci anni avevo accumulato una serie di scritti impressionante, li ho rivisti e provato a togliere il contingente salvando i pensieri che andavano al di là. Ho lavorato sule parole. Anche qui, ero convinto: l’unica cosa che non farò è un libro con la Mondadori. Invece alla fine ho deciso di accettare proprio il contratto della Mondadori. Come spesso accade, si parte con delle motivazioni che sembrano enormi, poi scontrandosi con il reale diventano più piccole e alla fine decadono.

È una vecchia polemica quella degli autori di sinistra che non dovrebbero pubblicare con la Mondadori di Berlusconi. Eppure, in tanti si dicono comunque liberi da condizionamenti.
La libertà è tua, non te la danno gli altri. Poi certo, la dimensione economica ha un suo valore e fa la differenza.

Tra le varie accuse che ti sono state rivolte, c’è anche questa: di essere “sensibile” al denaro. Qual è il tuo rapporto con i soldi?
Ho un rapporto determinato. Tutte le cose importanti per me sono state decise nell’infanzia. Su alcuni aspetti ho molto combattuto, ma a un certo punto ho deciso che l’educazione ricevuta era la migliore, con tutti i difetti che gli riconosco e senza perdonargli niente. Anche dei soldi penso quello che mi ha insegnato mio nonno: un vizio ci vuole, perché un uomo senza vizi è un uomo da niente. Però, per avere un vizio, bisogna saperselo mantenere e quindi lavorare. I soldi bisogna guadagnarseli, sennò sono solamente preoccupazioni, ma senza esserne troppo legati.

In un “mondo piccolo” come quello di Cerreto non sembra che servano molti soldi per vivere degnamente.
Sono stato fortunato, perché non soffro di invidia. Sono contento di quello che ho, senza negarne i difetti. Anzi, a me piacciono i miei difetti. Quando sono nato eravamo molto poveri, con mio padre che era morto e abbiamo vissuto con un piccolo stipendio di mia madre. Questo ci ha costretto a fare i conti con una povertà che i nostri vecchi non avevano mai conosciuto. Prima eravamo una famiglia benestante, benché in una dimensione arcaica di montagna. Comunque, in casa nostra nessuno è mai morto di fame. Una buona abitazione, un po’ di terra, gli animali. Noi stavamo bene al mondo! La disgrazia l’abbiamo conosciuta perché la società è cambiata e siamo stati costretti a reinventarci sulle spalle di mia madre, che ha allevato due figli e li ha fatti studiare.

Come hai vissuto la tua giovinezza precedente ai CCCP a Cerreto Alpi?
Sono nato povero, ma molto orgoglioso della mia storia. A scuola, mentre gli altri avevano i giochi, io pensavo ai miei cavalli, agli animali, ai boschi e mi facevano ridere i loro aggeggi finti. In una stanza io potevo raccattare per il bosco tutti gli animali che trovavo, come merli e gufi. Era molto più divertente. Da bambino non percepivo di essere povero. Non avevamo soldi, fine. Al liceo ho iniziato a capire che la condizione economica della mia famiglia era molto al di sotto delle altre. Pensa che in casa abbiamo preso la televisione quando in prima liceo ho scoperto che tutti guardavano l’Odissea la domenica sera. Fino ad allora non avevamo neanche una radio. Da ragazzino, per avere un po’ di soldi non li chiedevo a mia madre, mi sarei vergognato. Andavo a funghi come si faceva in montagna, e alla fine dell’anno mi compravo il cappotto da fighetto oppure l’eskimo da estremista di sinistra, che poi sono la stessa cosa.

E allora come mai in molti ti accusano di aver speculato sul movimento punk? 
Con i CCCP eravamo troppo ideologici per porci questi problemi, infatti non guadagnavamo un cazzo. Percepivamo lo stipendio base di un metalmeccanico. Chiusi i CCCP ci siamo divisi due milioni e mezzo a testa e con la mia parte mi sono comprato un cavallo. Sai, ognuno conosce le proprie invidie e le proprie angosce. Al tempo dei CSI abbiamo guadagnato bene, facevamo un sacco di concerti con migliaia di persone. Ma è anche l’unico momento in cui ho rischiato di andare fuori di testa.

A causa degli eccessi?
Sì, finiva un mondo e cambiavo io. Mi ubriacavo tutte le sere, con quattro o cinque bottiglie di vino pregiato spendendo un sacco. Meno male che prima di sperperare tutto avevo messo via un gruzzolo e mi sono ricordato l’insegnamento di mia nonna. Così ho deciso di rimettere a posto questa casa, che stava crollando e alla quale avevano tolto l’abitabilità. Tutti i soldi che avevo li ho usati per rimettere a posto la mia “venerabile dimora”. E ho continuato a lavorare per pagare i debiti. Da allora campo in una condizione di relativo benessere. Non compro un vestito non so da quanti anni, acquisto solamente libri. Se ho dei soldi li uso per mettere a posto la stalla, perché devo rifare tutti i tetti degli annessi agricoli. Se mi avanzasse qualcosa, mi piacerebbe regalarlo a chi ne ha bisogno, ma in una dimensione assolutamente privata.

Ti manca qualcosa della tua vita precedente, nei CCCP, CSI o PGR?
No, non so neanche immaginare i rimpianti. Se mi soffermo su un periodo della vita, credo di riuscire a riconoscerne pregi e difetti. Ma è stato quello che è stato. Non vorrei tornare ad essere giovane. La vita è un dono troppo bello.

Un consiglio a un giovane irrequieto che si avvicina alla musica?
Non saprei darglielo, perché semplicemente ho costruito la mia vita stando attento a quello che mi succedeva intorno. Per iniziare tutta questa storia ho dovuto incontrare Zamboni, poi mettere in piedi i CCCP. L’unica cosa che posso dirgli è questa: guardati bene attorno, fai attenzione a ciò che si muove rispetto ai tuoi interessi. Sarebbe orribile, però, se cercassi di indirizzarlo. Perché è questo che fa grande la vita: a ogni essere umano è data una chance che è solo sua.

Hai mai pensato alla fine di questa vita terrena?
Non so se sia molto cristiano, purtroppo ho anche pensieri che non lo sono, però mi piacerebbe fare come alcuni cani che ho avuto, che hanno scelto il momento in cui salutare e avviarsi verso il monte per morire da soli sotto le stelle. Oppure in casa. Ma sicuramente a Cerreto.

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